martedì 11 dicembre 2018

Praga: ieri

Avete presente le televendite dei mobilifici sulle reti locali? Dove vengono presentate cucine, soggiorni, camere da letto, salotti e quant'altro?
Una volta vidi un venditore di mobili su un canale piemontese (ma queste pubblicità le avete in tutte le regioni, ne sono certo) che presentava cucine in stile classico e in stile moderno.

Ad un certo punto presentò una cucina in finitura blu e ciliegio, con antine in vetro acidato. Disse "per chi ama il moderno, ma non troppo".

E questa piazza ve la voglio presentare proprio così, con queste parole: per chi ama il moderno, ma non troppo.
Perché il centro di Praga è suddiviso in una parte vecchia, un labirinto di vicoli fiabeschi che è un eufemismo dire bellissimi, ed una più moderna, che trabocca di turisti, musei e negozi. Che è bella anche lei, dai.

A mettere d'accordo tutti ci pensa questo bellissimo spazio pubblico. Si chiama Platýz, ed è un tranquillo cortile interno agli edifici dietro Piazza Venceslao, centro della città nuova. Il porfido è coperto di deliziosi dehors, presi d'assalto nelle giornate di sole.
E da non perdere anche la retrostante chiesa di San Martino dentro le mura, medievale del XIII secolo, che a suo tempo era adiacente alla cerchia muraria che circondava la città vecchia. Si raggiunge tramite una bellissima e silenziosa stradina di acciottolato.

Certi angoli del centro storico possono essere visitati in totale isolamento dalle frotte di turisti come avviene nella migliore Roma. Ed io, naturalmente, mi sentirei in colpa a terminare l'articolo senza svelarvi quali sono le stradine segrete che preferisco della città vecchia praghese, tutte irrimediabilmente medievali e suggestive: Týnská, Kožná, Řetězová, Anežská, Průchodní, Stříbrná e il tratto di Zlatá compreso tra Liliová e Husova.
Ok, non sono più segrete. Fatene buon uso.



domenica 28 ottobre 2018

Budapest: oggi

Vuoi per i prezzi, vuoi per la concorrenza, vuoi per mentalità o politica, l'Italia da qualche decennio fatica a proporsi come meta di turismo giovanile.
Gli ostelli non sono ancora una realtà iper consolidata ed è raro veder comparire il belpaese in classifiche riguardanti le mete consigliate ai backpackers, o a chi cerca intensa vita notturna (nelle altre classifiche ci siamo praticamente sempre, amor patrio non vi scenda).
Da tenere d'occhio non sono tanto le solite BarcellonaLondraBerlinoIbiza, perennemente presenti, quanto molte città dell'Est Europa che sopraggiungono dalle retrovie.

E se Budapest magari non figura tra le città europee che stanno pensando in grande architettonicamente, la sua vita notturna è al passissimo coi tempissimi, con risultati a seguito.
L'ultimo eclatante esempio sono i ruin pub ("pub in rovina"). All'inizio di questo millennio infatti, da parte di diversi gruppi di giovani, iniziò l'occupazione e la riconversione di molti edifici abbandonati nel cuore del centro. Vennero recuperati e reinventati mobili in disuso come vecchie poltrone, divani, credenze e vasche da bagno, che ne costituiscono ora l'arredamento. Sì, i ruin pub sono praticamente dei collage. Un modo per non buttare via niente e usarlo sapientemente. Il risultato è una folla di indigeni e turisti finché il clima mite lo consente.

Il primo e più celebre ruin pub si chiama Szimpla Kert. Un capolavoro di due piani che conta diversi bar, un cortile, innumerevoli stanze in cui rilassarsi su strambe sedie ed un sacco di modi diversi di intrattenere gli avventori. Ogni sera c'è qualcosa, ma soprattutto la domenica ha qui sede un mercato di prodotti contadini locali.
Veniteci presto, dopo mangiato, perché la tentazione di esplorarne ogni singolo angolo, per ore, potrebbe sopraffarvi.


venerdì 19 ottobre 2018

Budapest: ieri

Amo Budapest sin da quando ci andai la prima volta con obiettivi tutt'altro che turistici: gigante festival musicale.
Niente mi impedì in quell'occasione di proporre ad un ragazzo della combriccola, preso bene quanto me sulle camminate urbane, di farsi un giro in hangover.

Motivo del giro: il monumento dedicato a "I Ragazzi Della Via Pàl", il più celebre romanzo ungherese nonché uno dei miei preferiti in assoluto, caratterizzato da una storia tutt'altro che allegra ed incentrata sulla denuncia di mancanza di spazi aperti nella capitale magiara.
In realtà, con tutto il rispetto, il monumento vero e proprio si rivelò la parte meno divertente del giro, dato che il percorso per arrivarci aveva compreso diverse stradine e piazzette tutt'altro che affollate, che Budapest tiene per chi le vuole scoprire.

Chiedo scusa se le elencherò in stile agente immobiliare, in modi tutt'altro che convincenti, però insomma avete diritto ad illustrazioni mentali di qualche tipo.

C'è Egyetem tér, bellissimo spazio pubblico circondato da una chiesa, un museo, una fontana, una facoltà universitaria e diversi caffè.
C'è Ràday utca, via su cui si affacciano decine di bar e ristoranti, i cui dehors creano una bella parata.
C'è Ötpacsirta utca, verde e fiancheggiata da monumentalissimi palazzi museali.
E poi la mia preferita, Mikszàth Kàlmàn tér (in foto, che ve lo dico a fà), piazza pedonale con fontana e diversi caffè, posta a brevissima distanza da edifici culturali, musei e biblioteche.
Tutt'altro che brutta. 


giovedì 11 ottobre 2018

Trieste: oggi

Suvvia, mi pare ovvio che la frase dell'articolo precedente non volesse sminuire Barcellona e l'ottimo lavoro là fatto negli ultimi decenni.
Al contrario, la metropoli catalana dovrebbe essere presa come modello da città di mare italiane che hanno altrettanto potenziale.
E poi ho bisogno di citare positivamente Barcellona per questo nuovo articolo, ma se ci attacchiamo a questi dettagli...

Il paragone tra Viale XX Settembre e La Rambla viene fin troppo facile, pur essendo la controparte triestina meno ampia e interamente pedonale nel primo tratto.
Ristoranti, locali, caffè (alcuni di gran prestigio), negozi e cinema affollano i due lati del viale che, nonostante sia l'area pedonale cittadina a sprigionare più modernità, ha molto da raccontare nei suoi due secoli di esistenza.
L'hanno frequentato, soprattutto ai tavoli dei suoi caffè, decine di intellettuali tra i nativi di Trieste e quelli ben felici di andarci. Italo Svevo, Umberto Saba, James Joyce ci confermano che Trieste è da sempre luogo favorito dalla crème. Mi viene in mente il grande Gillo Dorfles, nativo triestino e testimone di un secolo artistico, morto ultracentenario qualche mese fa.

Il viale come lo vediamo si deve a Domenico Rossetti. Quando la zona era ancora occupata da un acquedotto ed era aperta campagna, questo antiquario triestino costruì un villone immerso nel verde, con un sentiero alberato che costeggiava la fonte idrica cittadina.
In pratica, ogni volta che percorriamo questo viale stiamo compiendo una violazione di domicilio. Vergogna. 










martedì 9 ottobre 2018

Trieste: ieri

Premettiamo che qualche anno fa la Lonely Planet "in persona" collocò Trieste al primo posto di una speciale classifica dedicata ai luoghi sottovalutati dai turisti.
Perciò, soprattutto per i vagamondo stranieri, tutta la città è già una rivelazione in partenza.

Ma la più bella attrazione famosa - non famosa di Trieste resta il Ghetto: la manciata di viuzze appena dietro la celebre (da noi) Piazza Unità D'Italia. Botteghe, antiquari, bar e ristoranti contrastano col suo nome poco felice. Il piccolo distretto è caratterizzato da una storia lunga ed intricata, che va di pari passo con quella cittadina anche grazie alla sua posizione centrale. Ne consiglio l'approfondimento. 

Di sera la zona diventa uno dei fulcri della vita notturna del centro assieme al Canal Grande, a via Torino e alla piazza dell'Arco di Riccardo. Triestini e turisti affollano i numerosi locali disposti nei vicoletti, creando un'atmosfera assolutamente magica.
C'è da scommettere che se altri centri storici italiani più problematici (e certo, anche più grandi) come Genova e Napoli fossero tutti così, città come Barcellona i turisti non saprebbero nemmeno localizzarle sulla cartina.

La via che si vede in foto si chiama Androna del Pane, e deve il suo nome alle venditrici di pane che giungevano a Trieste, dette Servolane. L'Androna è invece una toponomastica caratteristica di questa zona di mondo (alla pari dell'Archivolto in Liguria o del Chiasso a Firenze) ed indica un vicoletto, una via stretta tra le case, a volte anche un cortile senza via d'uscita. Non in questo caso.


lunedì 8 ottobre 2018

Eurotrippa

Voglio essere onesto: questo viaggio è un'avventura attraverso varie città d'Europa assieme ad un caro amico, muovendosi in autobus e dormendo in luoghi economici. Fin qui niente di particolare. Migliaia di persone l'hanno fatto prima di noi e altrettante lo faranno dopo.

Eurotrippa nasce per fotografare (ehm, letteralmente) in modo schietto e selettivo due realtà per ciascuna delle città europee che visiteremo, magari sottovalutate, magari invece celebri ma con quell'angolo poco conosciuto che meriterebbe hype. Da Milano ci muoveremo verso est. Una delle due foto sarà in rappresentanza della città "di ieri", i suoi fasti e le sue glorie passate, o i suoi angoli nascosti. L'altra sarà dedicata alla città "di oggi", un qualcosa (spesso non distante dal centro) che dimostri le capacità della città di tenere il passo con l'età moderna, oppure semplicemente fuochi di paglia belli da vedere. Fin qui magari ancora niente di particolare, sarete voi a giudicare.

Il nome Eurotrippa l'ho scelto per fare un parallelismo tra il modo in cui cambiano i centri urbani europei nel corso degli anni, e il modo in cui la pancetta di un viaggiatore va e viene, si espande e si ritrae a seconda della quantità di cibo e di birra che consuma.
Sto scherzando dai, non sono un cantante indie moderno. Ho scelto Eurotrippa perché mi faceva ridere. 

lunedì 24 settembre 2018


Scherzavo, ovviamente.

Mi avete un po' sottovalutato se eravate convinti che chiudessi questa mega rassegna senza entusiasmo, senza pathos, senza musica!

A parte il fatto che in Texas ho visto delle targhette-souvenir con perle di saggezza tipo: "l'alcol è sempre la risposta, non chiedetemi la domanda".
Alcol, musica. Il luogo di Dallas dove trovare entrambe le cose è il Deep Ellum, zona ad est di Downtown che prende il nome dalla storpiatura della pronuncia texana della parola "Elm". Elm Street è la via principale del quartiere.

La seconda metà del '900 ha visto Deep Ellum trasformarsi da una zona di periferia industriale e malfrequentata ad un concentrato di locali e bar in cui bere ed ascoltare musica, dotati di quello stylish touch che caratterizza molti quartieri riconvertiti di questo tipo.
In realtà anche oggi, a notte fonda, non ci sono esattamente persone che inviterei per il caffè, di conseguenza il mio consiglio è di andarci per cena e farsi una di quelle serate in cui è una libidine guardare l'orologio e realizzare che non sono ancora le dieci.

La comunità artistica è piuttosto florida, e il simbolo del quartiere sono le tre enormi sculture a forma di robot denominate The Traveling Man, che rappresentano i tre momenti di un viaggiatore: il riposo ("The Awakening"), l'attesa ("Waiting on a Train") ed il cammino ("Walking Tall").

Va comunque detto che quando ho visitato questo quartiere, e in generale tutta Dallas, ero pervaso dalla contraddizione che ti assale al termine di un lungo viaggio: ti diverti, certo, ma al contempo non ti dispiacerebbe tornare a casa.
I tuoi luoghi, i tuoi affetti, le tue comodità, il non dover esibire il passaporto per ordinare una birra.

È paurosamente ampio il catalogo delle canzoni ideali per il quadro di una qualsiasi metropoli americana che si allontana da te, alle prime luci dell'alba.
Da "Sailing" di Christopher Cross a "The Fountain Of Youth" di Michael Franks, passando per "Last Train Home" di Pat Metheny. Oppure tutte e tre, che il viaggio si preannuncia lungo.


domenica 16 settembre 2018

Anche a Dallas c'è un intero quartiere dedicato alla cultura (con cui non si mangia, lo ricordo), che a conti fatti risulta il più grande d'America nel suo genere.
Proprio qui gli architetti superstar hanno dato del loro meglio: negli ultimi decenni una manciata di isolati è stata ricoperta di edifici a scopo culturale prestigiosamente firmati.

Il mio preferito è il Morton H. Meyerson Symphony Center, che però è di nuovo opera di Ieoh Ming Pei. Direi per par condicio di scomodare qualcun altro.

Norman Foster è celebre per la cupola del Reichstag di Berlino, e se vi fate venire in mente 5 strutture architettoniche contemporanee di Londra, probabilmente 3 sono opera sua.
Per Dallas ha progettato la piacevolissima Winspear Opera House, che si inserisce nel più vasto AT&T Performing Arts Center, un gigantesco polo sede di diverse compagnie teatrali, di canto e di ballo.
Chiedo scusa se c'è qualche super appassionato di architettura: menzionare l'autore di un edificio, assieme ad alcune sue celebri creazioni, non è tanto un fatto di garanzia e di brand ("l'ha fatto Norman Foster quindi è bello") ma serve a rendere l'idea di quanto abbiano pensato in grande a Dallas, e soprattutto chi è in grado di riconoscere il marchio di fabbrica di un grande progettista tramite ricerca di somiglianze con altri suoi lavori, lo può fare.

Citazione particolare la merita l'adiacente (ma meno recente) scuola d'arte dedicata a Booker T. Washington, figura fondamentale del '900 per la lotta alla segregazione razziale, e qui ricordato da un monumento. Ho studiato la sua storia all'università ed è tra le poche cose che ancora ricordo a menadito. Bello ritrovarlo qui.

Ebbene ragazzi, è il momento di salutarci. A Montréal avevo iniziato con un landmark culturale e con un landmark culturale concludo. Saluto questo continente pieno di vita, diversità, contraddizioni, con la certezza che sia solo un arrivederci.


lunedì 3 settembre 2018

La playlist va avanti e ora in riproduzione c'è "Try Me On, I'm Very You" dei Deee-Lite, altra bellissima colonna sonora da camminata urbana.

Sono rimasto favorevolmente colpito dalla onnipresenza delle fontane nell'arredo outdoor (perdonate l'inglesismo, ho già usato "urbano" nel paragrafo precedente) della Downtown di Dallas.
Buoni esempi sono la Pegasus Plaza e soprattutto la fontana della moderna chiesa First Baptist Dallas che ha, tra l'altro, un vulcano finto che erutta acqua ad intervalli regolari.

Ma tutto è oscurato da un luogo che la fontana ce l'ha pure nel nome. Il grattacielo Fountain Place è uno degli edifici più vistosi del quartiere degli affari: la sua costruzione ha infatti previsto un palazzo a forma di prisma che acquisisce una forma diversa a seconda dell'angolazione da cui lo si osserva. Pare dovesse avere un gemello ma negli anni 80, decennio della sua costruzione, si verificò la crisi del petrolio texano con conseguente mancanza di verdoni.
L'architetto della torre è lo stesso della piramide del Louvre di Parigi e della Bank Of China, il grattacielo trasparente di Hong Kong: il cino-americano Ieoh Ming Pei, che peraltro ho scoperto essere attualmente (luglio 2018) ancora tra noi alla veneranda età di 101 anni.
A lui si devono diversi edifici della Downtown, non ultimo il municipio.
E se, come dicevo precedentemente, le sculture nelle plaza portano firme meno celebri di quelle a Chicago, a livello architettonico Dallas ha moltiplicato gli edifici ad opera di progettisti superstar, di cui il signor Pei è uno dei tanti. Approfondiremo nel prossimo articolo.

Beh ma sicuramente vorrete sapere perché questo trionfo di acciaio si chiama Fountain Place, no?
Potrei sbagliarmi, ma credo sia per la presenza di 172 (cento-SETTANTA-due) fontane nella plaza pedonale sottostante. Esse formano un vero e proprio spettacolo idrico automatizzato ed è possibile passare su una scala che affianca alcuni laghetti disposti in discesa. Naturalmente, è facile immaginarsi quanto forte sia la somma degli scrosci d'acqua lì sotto. Che mi importa delle cascate del Niagara, io sono stato al Fountain Place! 



lunedì 27 agosto 2018

Un giro per la Downtown di Dallas è un'occasione d'oro per snocciolare nuovamente la playlist di musica urbana, come non succedeva dai tempi di Chicago.
"Ain't Nothing Goin' On But The Rent" di Gwen Guthrie, "Chameleon" di Herbie Hancock, "Suspicions" di Eddie Rabbitt. O magari "All 4 Love" dei Color Me Badd se vogliamo stare allegri.

Ma non siamo a Chicago, e me ne accorgo ben presto.
Dimenticatevi le sculture di Mirò, Picasso, Chagall. Ma quando mai!
Qui il primo arredo urbano che trovo è niente di meno che la riproduzione di un occhio gigante, blu come un ghiacciolo all'anice e diretto con la sua estrema vistosità, quasi a volermi dire "benvenuto al sud, stronzo!".

Informiamoci meglio, allora. Ideato dall'artista Tony Tasset, fu fabbricato in vetroresina nel 2007 per un'esposizione temporanea tenutasi a Chicago (AH!) da una società non esattamente nota per la sobrietà delle sue opere. Per esempio la mega ciambella di Randy's Donuts in California, riprodotta in film e videogiochi, è roba loro.
L'occhio è approdato poi in Texas dal 2013, dopo essere stato anche a St. Louis. Essendo proprietà privata non si può andare fin sotto, ma non è necessario.

PS: visti i tempi che corrono, è meglio se chiedo scusa per aver usato la parola "stronzo" prima. Ammetterete però che "benvenuto al sud, lestofante!", oppure "benvenuto al sud, manigoldo!" non sono esattamente realistiche per lo scritto di un ragazzo che vive nel XXI secolo.


mercoledì 22 agosto 2018

Per essere un semplice gruppo pop europeo, i Roxette ne hanno fatte assai di canzoni easy da viaggio. Prendi "Church Of Your Heart", perfetta quando il sole tramonta e l'asfalto scorre.

Allora, la tabella di marcia è la seguente: ho rinunciato ad andare a Houston a causa della mancanza di tempo e del tasso di imperdibilità inferiore rispetto alle altre metropoli texane. Tornerò.
È un po' un peccato, perché la città della NASA è merce aurea quando si tratta di luoghi americani che abbiamo sempre sentito nominare ma di cui sappiamo nel dettaglio poco o niente. Ed avevo fondato il blog anche per questo.
La cosa positiva in tal senso, è che mi risparmierò le originalissime battute degli amici che "sei a Houston perché hai un problema?", chiavica che si sarebbe andata ad aggiungere a "sei a Chicago? Poi tira l'acqua eh!".

Mi dirigo dunque verso Dallas ("salutami Lucio Dallas!"), ultima meta del mio viaggio.
La città è una specie di Milano del Texas: lussuosa, appariscente e al passo coi tempi, dove persino il triste assassinio del presidente Kennedy ha potuto trovare la sua spettacolarizzazione grazie ad un bellissimo museo.

Quale luogo migliore di questo, quindi, per una mega esposizione che celebrasse 100 anni di indipendenza del Texas dal Messico?
Correva il 1936 e nel grande spazio verde Fair Park (già esistente fin da fine '800) fu costruita una serie di edifici art decò piuttosto spartani in verità, ma compensati da variopinti disegni sotto i porticati e da gigantesche statue, che spezzano la monotonia.
Ognuno ha un tema diverso con strane classificazioni. Ci sono ad esempio i padiglioni francese e spagnolo, o quello texano, quello americano e quello degli stati confederati. I palazzi sono disposti attorno all'Esplanade Fountain: un'enorme vasca rettangolare con getti d'acqua inclinati verso l'interno, che dà quasi l'idea di una mega piscina olimpionica.
È uno dei più grandi siti di fiera temporanea ancora in piedi in America (ma non doveva essere così inizialmente) e per questo è stato dichiarato Historic Landmark.

Il Fair Park è enorme, e anche quando non ospita la Fiera dello Stato del Texas in autunno, può contare su laghetti, stadi, spazi per concerti, una ruota panoramica, diversi musei e un giardino botanico, che con questo caldo è l'unico luogo che sono riuscito a visitare.
"Sunshine on my shoulder makes me happy" diceva John Denver. Ma lui era del West Virginia, non del Texas. 



sabato 18 agosto 2018

Sono sempre rimasto stupito dalla capacità di marketing ed illusione che hanno i film americani.

Riescono a convincerti che i pancakes siano qualcosa di imperdibile. Che andare a scuola sia più piacevole se hai un armadietto. Che ogni europeo debba maledire il fato per non essere nato in California. Possono far apprezzare "More Than A Feeling" dei Boston a qualcuno che normalmente rifiuta di ascoltare qualsiasi canzone troppo vecchia (dove magari "vecchia" corrisponde a "uscita 3 anni fa").
E dulcis in fundo, hanno reso un mito assoluto le villette a schiera con giardino. Le hanno elevate ad indiscutibile emblema del sogno americano quasi esistessero solo lì.

Però c'è un però.
Da quel che ho visto, queste residenze sono assolutamente all'altezza della loro fama.
E a meno che il vostro desiderio non sia incontrare qualche attore di Hollywood in veste da jogging, dirottare il vostro itinerario da Los Angeles a San Antonio potrebbe essere una buona idea.
Il King William District è appena fuori dal centro, lungo un canale. E percorrendo i suoi viali alberati ci si imbatte in residenze maestose, tutte diverse tra loro, senza mai stancarsi per decine di minuti. Di sera, specialmente nei weekend, la zona si trasforma in un fulcro della nightlife alternativa. Frotte di giovani riempiono i dehor nei giardini delle villette o sugli spazi ghiaiosi all'aperto, soprattutto lungo South Alamo Street.

Stavolta una villa in particolare da farvi vedere l'ho scelta, per un motivo: è tra le pochissime visitabili (per la precisione una delle due): Villa Finale, sede di un museo.
L'altra accessibile invece è la Edward Steves Homestead, se passate da quelle parti. Ma tanto andate tutti a Hollywood. 


mercoledì 8 agosto 2018


Mi dispiace essere ridondante sul fatto che San Antonio ricorda molto il Messico però diamine, guardate qui.

La periferia della città è disseminata di missioni spagnole settecentesche, patrimonio dell'UNESCO e tra le più importanti testimonianze cattoliche del Texas anche se onestamente non so se ci sia molta concorrenza per tale primato.

Quella di San José, situata in un quartiere periferico (anche qui, prendete un taxi) è spettacolare.
Difficile dire cosa colpisca di più: se l'enorme perimetro del cortile esterno ad archi colorato dal verde dei prati e degli alberi, i giochi di forme creati dalle arcate dietro la chiesa o la messa con i mariachi che si svolge tutte le domeniche a mezzogiorno. Consigliata, quest'ultima, indipendentemente dalla vostra fede.


sabato 4 agosto 2018

Il clima. Il cielo. Le temperature.

Argomenti che ti salvano perennemente in una conversazione in cui non sai cosa dire.
Infatti non ho mai capito perché, da quando ci sono i social, vada di moda andare in vacanza in posti caldi e comunicare la temperatura online come dei novelli Meteo 2. Cercando magari di suscitare invidia: "qui ci sono 38 gradi, buondì".
Cari ragazzi, non vi invidio molto se la temperatura è la cosa più interessante del posto in cui siete.

E dei 41 gradi che ci sono a San Antonio, senza un filo di vento, c'è poco da gioire.
Comunque il quartiere di Market Square, detto anche Mercado, è difficile definirlo un posto Tex-Mex dato che di Tex ha ben poco.
Si tratta del più grande mercato messicano fuori dal Messico. La culla della civiltà precolombiana si può assaporare infatti qui tra bancarelle, negozietti, ristoranti e palchi predisposti su cui si esibiscono i mariachi.
L'artigianato tipico fa avvertire la sua presenza. Per una testa Olmeca in miniatura, insomma, siete nel posto giusto.

E proprio qui a San Antonio, la città più a sud che visiterò, si avverte assai la lontananza del Canada francofono in cui camminavo 20 giorni addietro.

Come colonna sonora consiglio qualcosa per calarsi nell'atmosfera, ad esempio "Contestación A El Marinero" di Celia Cruz. O magari "La Pepita De Mango" di Yomo Toro.



mercoledì 1 agosto 2018

Dovremmo un attimo renderci conto di quanto è grande il Texas. Tutte le nazioni d'Europa sono più piccole, e per attraversarlo non basta un giorno.
Di riflesso, il viaggio da Fort Worth a San Antonio è piuttosto breve: 5 ore.

Che onestamente scorrono via veloci, tra una canzone 'on the road' e l'altra. "The Doctor" dei Doobie Brothers, "Run Run Run" dei Jo Jo Gunne, "Talking In Your Sleep" di Gordon Lightfoot. Per non parlare di "Guitar Man" dei Bread, che secondo me è la canzone da viaggio per antonomasia.

Qualche generalità su San Antonio prima di lanciarci alla scoperta: è una città completamente pervasa da un'atmosfera messicana e latina, e camminando per le sue strade spesso ci si dimentica di trovarsi ancora nella terra di Chuck Norris.
È anche uno dei pochi luoghi davvero turistici che vedrò nel mio viaggio. Nella Downtown si scorgono frotte di foresti affascinati, tra cui spiccano gli americani che portano l'immancabile maglietta con scritto sopra il nome dello stato USA da cui vengono (ma hanno così tanta paura di dimenticarlo?) e gli ispanici.

Il distretto storico La Villita è uno degli angoli più belli e vecchi, mi sento in colpa a dire antichi, del centro: un microcosmo ottocentesco di botteghe, gallerie d'arte e piazze pedonali caratteristiche, dall'aria squisitamente mesoamericana. Si trova a breve distanza dalla Riverwalk, a gran ragione la più frequentata attrazione turistica di San Antonio, quindi ci sono poche scuse anche per i meno propensi a camminare.

Affacciato sul Riverwalk in direzione La Villita c'è una bella invenzione: un teatro all'aperto chiamato Arneson River Theater.
Ed un altro posto assolutamente da vedere situato a breve distanza è lo Yanaguana Garden, un parco giochi con alcune interessanti e variopinte opere d'arte che a tratti ricordano Barcellona e Gaudí.

Assaggi di una città affascinante, crocevia di diverse culture. Tropicale nel clima, europea nello stile di vita, messicana nelle architetture, in generale latina nel melting pot e nella gastronomia. Ma la parte migliore è quando ti ricordi di essere ancora in America e che quindi la Pausini non la conosce nessuno. 


lunedì 30 luglio 2018

Se si vuol davvero capire in che parte del mondo si è arrivati, conviene dirigersi agli Stockyards, il quartiere western di Fort Worth.
Qui si respira davvero un'aria da Magnifici Sette, tra gli edifici in legno, i tori meccanici e i cowboy che ogni tanto si palesano.

I country bar con le sedie a forma di sella di cavallo e gli empori di cianfrusaglie Far West ci ricordano poi che ci troviamo in una zona destinata anche a gente molto curiosa, ed è principalmente questo che ho apprezzato degli Stockyards: ti propongono alcuni elementi da selvaggio West cinematografico e allo stesso tempo ti sbattono in faccia che insomma, qualche isolato del quartiere era davvero di proprietà di Buffalo Bill. Che al Billy Bob's Texas, il più grande honky tonk al mondo, si è esibito davvero Merle Haggard. Che nella stanza dello Stockyards Hotel, un albergo dedicato al mito dei cowboy, ha alloggiato davvero Clyde di Bonnie & Clyde. Realtà e finzione che convivono, non si sa dove finisca una e inizi l'altra, ed è perfetto così.

L'edificio in foto è il Cowtown Coliseum, uno dei più vistosi degli Stockyards. Si tratta di un'arena dove hanno luogo veri e propri rodeo (solo il venerdì e il sabato, organizzatevi). Solamente partecipandovi si può realizzare quanto questo cowboy show sia un momento di aggregazione e spettacolarizzazione, come del resto tutti gli sport negli USA.
Uscendo dal rodeo si possono ammirare i cavalli nel maneggio retrostante, e poi girare i saloon nelle vicinanze, sentendosi come Lucky Luke per qualche ora.

Poteva mancare la colonna sonora?
"Ida Red" degli Asleep At The Wheel, e qui siamo già sul country stereotipato con l'uomo che fa "yeee ha!" col lazo. Ma si tratta di un problema relativo, da ste parti poi. 


sabato 28 luglio 2018

Potrebbe essere colpa della meticolosa suddivisione in quartieri a destinazione specifica (uffici in downtown, residenze in periferia, eccetera eccetera) se in alcune città americane ci ritroviamo dei veri e propri distretti museali, come il Cultural District di Fort Worth. 
Mi si risponderà che anche in Europa ci sono realtà come l'Isola dei Musei di Berlino. Vero, ma stupisce comunque l'overdose di cultura che ti puoi fare in poche decine di metri in un rione non proprio centrale. 

Qui il fiore all'occhiello architettonico è senza dubbio la nuova ala del Kimbell Art Museum progettata da Renzo Piano. Luminosa e spaziosa, è costituita in modo che si acceda alle esposizioni da un atrio, pensato probabilmente per essere colmo di luce quanto il giardino esterno. Su quest'ultimo si affacciano alcune sculture e l'altro edificio del museo, il più vecchio.

È stato il primo luogo che ho visitato a Fort Worth, per due ragioni. Ritengo infatti che iniziando il tour dalle periferie si possa cogliere subito la vera essenza urbana di un posto, con tanto di adrenalina e stupore che crescono man mano che ci si avvicina al centro. E poi qua vicino c'è una tavernetta che fa degli ottimi hamburger, frequentata dalla gente del posto. Mica cotiche (hamburger, appunto). 

Curiosità: uno dei musei del Cultural District è dedicato interamente alle cowgirl, e dev'essere molto interessante. Ma ho un solo giorno per girare a Fort Worth ed è decisamente meglio toccarla con mano la cultura Western, che qui si può. 


mercoledì 25 luglio 2018

Prossima fermata Texas, finalmente.
E più precisamente Fort Worth, dove trascorrerò la mia prima notte nello stato della stella solitaria.

La città è diversissima da Dallas, pur essendo situata a poche decine di chilometri da questa. Qui infatti ci si può calare totalmente nell'atmosfera western a cui Fort Worth è assai attaccata (la chiamano "Cowtown"), e chi lavora nel turismo da queste parti non si è certo fatto sfuggire tal ghiotta occasione.
Chi non possiede un mezzo proprio e non potrà, quindi, addentrarsi nella provincia texana coi suoi ranch e i suoi grill troverà qui ciò che cerca. Un po' più turisticizzato, hai visto mai, ma ci sta benissimo.

Un po' stanco lo sono. Qualcosa di energico, dal titolo spero non profetico: "Nowhere Road" di Steve Earle, e camminare.

Sundance Square la possiamo considerare il vero centro di Fort Worth, ornata di palazzi caratteristici e fontane in ogni dove. Menzione particolare per una di esse: la Wave Wall Fountain, che simula ogni minuto una vera onda che si infrange sul bagnasciuga.
Ma il nome della piazza è profetico davvero: danza del sole. Il sole spacca me, altro che le pietre.

Mentre cammino per le immediate vicinanze della piazza, dove abbondano ristoranti, musei e locali per la musica dal vivo, scopro questo simpatico angolino all'ombra: Sundance Court, buono per ricaricarsi e ripartire.
Per certi versi ricorda molte città europee, dove appena dietro i luoghi turistici principali ti imbatti in questo o quell'anfratto che non aspettavi. 







Sopra le colline di Hot Springs hanno avuto la bella idea (e non è un modo di dire, è proprio una bella idea) di costruire una torre panoramica che permetta di ammirare i capolavori naturali dell'Arkansas. Ti senti davvero piccolo davanti a queste cose.
Ci si arriva dopo diversi percorsi con tornanti sovrastati da rigoglioso verde.

La torre architettonicamente non è nulla di che, ma prima di gridare all'ecomostro pensateci bene: la sua costruzione ha comportato un disboscamento sicuramente minore (la collina è ricoperta di alberi) di quello che si sarebbe avuto creando uno spiazzo a mò di belvedere sviluppato in larghezza.
E la vista è decisamente migliore così. 


martedì 24 luglio 2018


Jerry Reed mamma mia, come diavolo ha fatto a non sbagliare mai una canzone? Forse se conoscessimo di più i suoi pezzi la nostra reputazione per la country migliorerebbe un po'.
Comunque mi fa compagnia "She Got The Goldmine, I Got The Shaft" mentre ritorno in bus a Little Rock da Branson. Un viaggio nella provincia più provincia d'America, tra ranch, stazioni di servizio, maneggi e foreste sterminate.

Da Little Rock giungerò poi con un lungo (ma non costoso) viaggio in Uber nella cittadina di Hot Springs, importante centro termale del sud sin da quando negli anni '30 era un nugolo di gangster, giocatori d'azzardo e contrabbandieri di alcolici. No, in realtà era semplicemente una località di modissima e quindi c'erano tutti, anche loro.

Lungo la via principale ci sono i vari edifici monumentali che ospitano gli stabilimenti termali, oltre ad alcune vasche, fontane e diversi rubinetti che erogano acqua bollente.
E qui mi vien da ridere: avete presente i videogiochi anni 90 tipo Spyro The Dragon, in cui i livelli hanno il nome della loro caratteristica principale (esempio: Vulcano Roccioso, Fossa dei Coccodrilli ecc.)? Qui, in una cittadina chiamata Sorgenti Calde, effettivamente...

Il centro si visita tutto in due orette, trattamento termale compreso. Perciò in un batter d'occhio mi dirigo verso questa gigantesca passeggiata pedonale immersa nel verde: la Hot Springs Creek Greenway Trail, che parte appena dietro la via principale e finisce miglia dopo, in riva ad un immenso lago fuori città.
Si tratta di un ex ferrovia che corre(va) parallela ad un torrente, ora trasformata in una camminata. È suddivisa in varie parti, ciascuna con un nome diverso e di differente lunghezza. Percorrendola si vedono continuamente rimesse ferroviarie e binari in disuso, un mercato agricolo, capolavori naturali come quello in foto ma soprattutto si passa vicino a luoghi di vita quotidiana come un autorimessa di camion o un parcheggio. Perché siamo di fronte ad un'opera che si integra in un contesto urbano, non lo domina. E se contiamo che praticamente ogni decina di metri ci si può fermare e sciallarsi in riva al fiume, beh.
PS:, Non l'ho percorsa tutta, direi nemmeno metà. È lunga. Se uscendo da Hot Springs si vede solo più natura e non edifici può solo che migliorare. 


lunedì 23 luglio 2018

E sì che il centro storico di Branson è bellissimo. Una via pedonale con negozi, caffè e steakhouse. Fontane con giochi d'acqua in prossimità del fiume, un parco di modeste dimensioni e un lungofiume piuttosto stretto con alcuni moli in legno protesi sull'acqua per ammirare meglio le foreste sull'altra riva. È presente un leggero retrogusto Western, sicuramente conciato a modo per i turisti ma comunque gradevole.
Mi faccio un giro sulle note di "Kyrie" dei Mr. Mister.

Ma allora perché la via dei teatri, di cui ho parlato nella foto precedente, che inizia nel centro e finisce in campagna ed è lunga chilometri, è di nuovo completamente pensata solo per le macchine?
I pedoni qua sono inesistenti e i pochi che si avventurano si sentono davvero tagliati fuori. I marciapiedi a volte nemmeno esistono, costringendoti a camminare nei parcheggi o nei vialetti dei drive dei fast food. E vi giuro che l'ultima parte del quartiere, la più lontana dal centro, non sono riuscito proprio a vederla: bisognava attraversare una strada ad alta percorrenza. I semafori sono un lontano ricordo e non esiste istante senza che passi un'auto (una tassista mi ha detto che d'estate Branson ha più turisti di tutto l'Egitto).

Sono perfettamente consapevole del fatto che in una cittadina del Missouri frequentata da famiglie americane quello fuori posto sono io. Però è un peccato perché sono riusciti a creare una Downtown davvero a misura d'uomo e con sforzi probabilmente minori verrebbe fuori una promenade gigantesca che permette di passare in pochi metri dal fiume selvaggio con le fontane alle strade pedonali modello europeo fino ai teatri con le insegne gigantesche al neon che colpiscono la vista. Non so quante città al mondo, non solo in America, potrebbero vantarla.






sabato 21 luglio 2018


Aspetti di andarci da una vita ed eccola qui. Tutti la conoscono e la sognano. Insegne sfavillanti e divertimento nel mezzo del nulla. Mega strutture finte costruite per colpire l'immaginazione. Un mito immortalato in decine di film e pubblicità.
La si può amare od odiare, ma non lascia certo indifferenti, col suo eccessivo essere, ehm,  "americana".

Perciò cantiamo tutti in coro VIVAAAAA Branson, nel Missouri.
(Se avete davvero creduto che parlassi di Las Vegas vi consiglio di rivedere le mete per un'eventuale vacanza negli USA, e di non farvi influenzare dai film).

A mia memoria, e la mia cultura cinematografica è piuttosto scarsa, Branson è citata solo nei Simpson, dove Homer la definisce "come una Las Vegas costruita da Ned Flanders".
Ancora oggi non capisco se il buon Homer Simpson si riferisse alla sua tranquillità o al suo essere in generale un posto molto devoto. Ma andiamo per ordine.

Le grandi insegne che costeggiano il 76 Country Boulevard non sono casinò ma teatri. I primi spettacoli da queste parti arrivarono intorno alla metà del '900 ed erano principalmente incentrati sulla musica country. Ora trattano un po' di tutto, e si può incappare in attori famosi, in declino o emergenti.
Nei decenni però, Branson è diventata una meta di divertimenti per famiglie tout court: vi si può trovare qualsiasi attività all'aperto vi possa venire in mente.
Ohi, siamo in America. Quando dico qualsiasi intendo qualsiasi: minigolf, parchi divertimento, parchi tematici, piscine, flying experience. Quello che ho fotografato è un museo.

Meta per famiglie vuol dire anche ristoranti chiusi alle 21 e teatri alle 22. Qualche pub particolarmente mattiniero tira avanti fino a mezzanotte. Pazzi scatenati.
Cosa diavolo ci fa qui uno come me?
Un po' di vero e autentico folklore, semplicemente. Provincia americana sterminata, al limite dell'impressionante dopo essere stato a Chicago appena una settimana prima. Gli spettacoli sono molto belli e coinvolgenti, con i temi Dio - patria - famiglia talmente radicati che quando esci dal teatro ti senti in colpa per non esserci abbastanza attaccato.

E ancora una volta balza agli occhi l'immensa capacità di marketing statunitense: Branson è nel mezzo del nulla, sulle montagne del Missouri, raggiungibile con strade tutt'altro che importanti.
Ve la immaginereste una cittadina sulle alture dell'Umbria o dell'Abruzzo con gli stessi potenziali di Riccione? 


venerdì 20 luglio 2018


Le nuvole là dietro non vi traggano in inganno, si soffoca dal caldo come al solito.
La principale attrazione di Little Rock è il River Market: un mercato vicino al fiume (non ve l'aspettavate questa) che sfortunatamente c'è tutti i giorni tranne oggi che è domenica.

Il lungofiume però si fa ugualmente apprezzare da entrambe le sponde. Di là, nella parte nord opposta al centro, chilometri e chilometri di verde e sentieri percorribili in bici e a piedi, che culminano in un gigantesco parco fluviale fuori città (Burns Park).
La parte di qua, in centro, è quella che voglio approfondire, perché ha del genio.
Hanno pensato infatti di ubicare, nel tratto tra i due ponti centrali della città, una quantità impressionante di sculture d'arte moderna, un po' donate da privati, un po' da artisti del circondario. Ce n'è una ogni metro, assieme a giochi d'acqua e di vapore.

Ancora una volta, democrazia. Non voglio mostrarvene una e lasciare fuori le altre perché me ne sono piaciute parecchie. Beccatevi questo passaggio coperto da piante rampicanti. Ha pure un nome che non ricordo, tipo tunnel della felicità, ma è comunque facilissimo da trovare essendo situato di fianco al River Market e al Junction Bridge, il ponte sul fiume Arkansas che è stato ad uso ferroviario, della Union Pacific, per quasi 100 anni prima di diventare una passerella pedonale negli anni 80. Probabilmente è cambiato poco da allora. 


giovedì 19 luglio 2018


Il prossimo stato non ha la fortuna di avere un nome arcinoto, e nemmeno città.
Tanto di guadagnato sinceramente. Rischio di non incontrare altri turisti per tutto il soggiorno.

Mi appropinquo verso l'Arkansas (o come lo pronunciano qui "Ergansò"), naturale luogo di passaggio tra gli stati musicali Mississippiani ed il Texas. Anzi, naturale e basta, dal momento che le sue principali attrazioni sono tutte meraviglie in cui non c'entra l'uomo, come i parchi nazionali.
Arrivo a Little Rock (o "Lu Ro" come si pronuncia qui), che è pure la città più grande dello stato. Anzi direi l'UNICA grande, dello stato. Se non sbaglio la seconda città dell'Arkansas ha gli abitanti di Caltanissetta. 
Ho intenzione di usare Piccola Roccia come base per visitare un paio di località un po' più imboscate, ma anche la città stessa pare non sia affatto male.

E infatti la prima cosa che vedo mi incuriosisce: in mezzo alla città completamente deserta (è l'ora di pranzo di domenica) vedo un gigantesco murales assai variopinto e che colpisce l'immaginazione.
Scoprirò poi con una piccola ricerca che in città ce ne sono altri 6 o 7, che questo si chiama South Main Mural ed è relativamente recente. Un ottimo modo di reinventare muri cittadini anonimi.

Prendere in foto tutto il murales e senza ostacoli di mezzo non è facile, ma comunque faccio mea culpa per non essermici messo d'impegno. Avevo fame e caldo.
Se conoscete qualcuno che fotografa i murales di Little Rock meglio di me ovviamente io mi arrenderò davanti all'evidenza.



E perciò, Memphis nasconde anche un altro lato: il fatto di avere indici di povertà piuttosto preoccupanti.
Anzi non lo nasconde per niente. Nella stessa Downtown campeggiano le insegne consumate di negozi chiusi chissà da quanto, e molta gente si rinchiude appena possibile nei centri commerciali, lasciando le vie principali un po' desolate.
Potrei azzardare con franchezza che contesti urbani così dissimili dall'Europa, in Occidente è difficile trovarne.

Me ne accorgo anche mentre mi sto recando in taxi a visitare lo Slave Haven Underground Railroad Museum (raccomando a tutti questo sistema, sia perché potrebbe essere difficile da trovare essendo ospitato in una normale casa, sia perché perdereste tempo a camminare per quartieri assolutamente anonimi in una città a cui probabilmente dedicherete pochi giorni).
All'interno è vietato fotografare. Tra i punti forti della collezione spiccano i cimeli provenienti dall'Africa come le maschere delle varie tribù, ed alcuni simboli dell'epoca della segregazione razziale fra cui i cartelli che vietano l'ingresso alle persone di colore e quelli che raccomandano loro di usare un altro autobus.
La più grande attrazione è però la casa stessa, che pare fosse parte della cosiddetta Underground Railroad, la rete segreta utilizzata dagli schiavi dell'800 per fuggire in luoghi sicuri.
Si può ancora scendere a vedere le botole sotterranee, come esperienza sicuramente singolare ed educativa in una città in cui la distinzione tra razze a volte pare tutt'altro che estinta. 


mercoledì 18 luglio 2018

WC Handy l'ha iniziato, Muddy Waters l'ha divulgato, i Blues Brothers l'hanno immortalato, Zucchero l'ha banalizzato.
Il blues è come una deliziosa e gigantesca torta alla panna da cui ognuno prende una fetta. Resta un genere che al solo nominarlo evoca creatività e stile. Un critico musicale può definire una canzone "blueseggiante" se vuole suscitare curiosità nel lettore.
Anche quest'articolo è molto blueseggiante, non trovate?

Tutto è cominciato qui, sulle rive di un fiume così grande che nemmeno sono riuscito ad inquadrare tutto. La stessa Memphis prende il nome da Menfi in Egitto, anch'essa fondata su un grande fiume (c'è perfino una gigantesca piramide in vetro in riva al Mississippi in onore di ciò. Un'americanata unica).
Anche se Chicago è stata fondamentale per il rimbalzo che ha consacrato il genere, in questa parte di entroterra americano è nato l'originale, il Delta blues, e indovinate di che fiume è il delta.
E questa è la punta del diamante. In realtà da Memphis sono passati tutti: Jerry Lee Lewis, Bob Dylan, Johnny Cash, BB King, Ray Charles e Otis Redding. Aretha Franklin e Booker T. Jones ci sono proprio nati. Al Green tiene qui una messa gospel irresistibile. 
E il numero spropositato di canzoni in cui è citata la città, vogliam parlarne?

Tuttavia, pur con tutti i problemi urbani (lo vedremo dopo, ve l'ho già detto) a Memphis hanno fatto sì che il Mississippi non si limitasse a portare un nome importante. Su una penisola del fiume è situato il parco di Mud Island: oasi di pace dove si trovano una monorotaia, un anfiteatro per concerti, un laghetto, un museo dedicato al fiume e soprattutto un lunghissimo canale balneabile che riproduce completamente in miniatura il corso del Mississippi, con tanto di biforcazioni, laghetti e cascate a rappresentare le sorgenti. Un fiume in mezzo ad un fiume, un'altra americanata.

Ho usato la parola americanata due volte, una in senso positivo l'altra negativo. Cercate di capire quale sia quale. 





martedì 17 luglio 2018


C'è un motivo per cui dedico un articolo alla via dei divertimenti di Memphis e non a quella di Nashville, e quel motivo è strettamente personale. L'imparzialità la lascio ai tribunali.

(scherzo, la Broadway di Nashville l'ho adorata. Ma tra poco capirete il favoritismo).

A causa della mia passione maniacale per la musica, non mi è mai piaciuto avere una e una sola canzone preferita. Aggiungerei il privilegio ad una per toglierlo ad altre che amo.
Però ecco, metti che un giorno mi rapiscano e mi obblighino a sceglierne una pena la vita, che faccio?
Forse la scelta ricadrebbe su una canzone westcoast del 1991: "Walking In Memphis" di Marc Cohn, un signore ricordato per questo brano e poco altro. La ascoltai la prima volta in un cd di musica "da viaggio" che mio padre ordinò a casa per posta, anni fa. E quel piano non smette mai di darmi i brividi. 
Beh, ora mi tocca realizzare che per Memphis ci sto camminando io, e sto vedendo di persona tutti i luoghi citati nella canzone. Non ho un "first class ticket" e non c'è una "pouring rain" ad attendermi ma il solito caldo torrido, per il resto siamo lì.

Beale Street è nominata nel ritornello. È il biglietto da visita della città, uno dei luoghi chiave dell'inizio carriera di Elvis Presley e purtroppo l'unico luogo di Downtown a non dare segni di cedimento (vedremo poi). Ci sono musica e persone a tutte le ore, dentro e fuori dai locali. Di sabato è così affollata che alle due estremità di ingresso vengono poste le transenne coi buttafuori, come ai concerti. Ciò però ha anche i suoi vantaggi: finora è l'unico luogo che abbia visto in America dove si può tranquillamente camminare per strada con gli alcolici in mano.


È ironico il fatto che uno dei più emblematici articoli che farò riguardo all'urbanizzazione negli USA (uno dei motivi per cui ho creato il blog) riguarda un luogo che non è affatto una città, né ci somiglia.

Anzi, direi che dopo essere stato a Tunica, nel Mississippi, devo ampiamente rivedere la mia concezione di "nel bel mezzo del nulla".
Si tratta di una zona nelle pianure fuori Memphis, nel Tennessee (qui le città di confine sono la norma, tanto di guadagnato per me che posso dire di aver visto uno stato in più), ed originariamente era una delle aree più povere degli USA, campava infatti sugli schiavi e sulle piantagioni di cotone del fiume Mississippi. Qualche decennio fa, l'idea di trasformarla in un'oasi del gioco d'azzardo: furono costruiti, sparsi nella piana, sfavillanti hotel autosufficienti con enormi casinò, negozi, ristoranti e piscine, che ora costituiscono motivo di attrazione non solo per chi gioca. Il tempo ha portato per esempio anche teatri e locali per musica dal vivo, e anche negli stessi casinò ci sono concerti tutte le sere. Dopotutto, siamo nella terra del blues.

Il posto è americanissimo, nel bene e nel male. Nel bene perché sfruttare appieno ciò che si ha è una cosa che qua sanno fare.
Nel male perché come molte aree non urbane statunitensi, Tunica è basata sulla totale dipendenza da mezzi privati. Senza un auto ci si può sognare di viaggiare tra un casinò e l'altro, e anche il ritorno a Memphis (non essendoci Uber) può essere costoso.
In generale però è un buon posto per fare una sosta senza pensieri quando si viaggia molto per l'America.

PS: nei bar dei casinò, tutte le sedie al bancone hanno a loro volta gli schermi per giocare d'azzardo. Più inquietante che affascinante.

lunedì 16 luglio 2018


Questa ve la devo raccontare, nuovamente a mò di diario di viaggio (dove mò posso farlo passare per l'abbreviazione di "modalità").

Ho bisogno però di due premesse:
1- andando contro alla quasi totalità dei backpackers, a me piace prenotare spesso in anticipo, almeno diminuisce il rischio di sold-out e prezzi proibitivi.
2- quando vado in un paese straniero, voglio vedere almeno una cittadina non battuta dal turismo, così da scoprire la vera anima di quel paese.

Così, in un impeto di masochismo, decido di andare da Nashville a Chattanooga in giornata con l'autobus (la distanza è pressappoco da Torino a Brescia, con un fuso orario di mezzo).
Appena fuori Chattanooga c'è un parco chiamato Rock City, con cascate e viste mozzafiato, ed è quello il mio motivo di visita. Se lo cercate su internet occhio, le cartine lo segnano già in Georgia e non in Tennessee.
E non che Rock City non sia bello, ma in realtà si tratta di una palese scusa per visitare un po' di America profonda, e una località non famosa (anche se probabilmente i meno giovani conosceranno Chattanooga per una celebre canzone dal titolo imbarazzante).

La mia gitarella fuori porta si svolge così:
- eccezionalmente prenoto l'autobus all'ultimo, poiché ero indeciso se andare. Il primo bus, che mi farebbe essere a Chattanooga di prima mattina, è sold out. Ovvio.
- il bus che prendo già arriva a destinazione un'ora di ritardo causa coda fuori città.
- la fermata del bus è veramente nel mezzo del nulla, classica area di periferia con parcheggi e fast food.
- internet mi tira pacco. Non posso usare Uber.
- mi chiudo a mangiare un panino bacon e cheddar in un diner/tavola calda coi separè tipicamente americano, di quelli che quando compaiono in un film scoppia sicuro una rissa. Camerieri con marcatissimo accento del sud e due avventrici afroamericane corpulente che si chiamano "honey" a vicenda. 
- chiedo se hanno il WiFi, negativo. Ma posso trovarlo da Burger King attraversando la strada (praticamente una statale). Vado, è una di quelle che non si connette a pregarle in sanscrito.
- ritorno al diner e chiedo di chiamarmi un taxi. Una volta, mezz'ora e non arriva. Me lo richiamano, altra mezz'ora e non arriva.
- Rock City è palesemente balzata. Ringrazio i ragazzi del diner e cerco di vedere almeno il centro storico sul fiume. Me la faccio a piedi, un'ora di camminata nella periferia, e cosa c'è di più deep America di così?
- Mentre sto percorrendo una via in mezzo a prati e capannoni, arriva un acquazzone con una velocità bestiale. Cerco riparo sotto la tettoia di un negozio di arredamenti. Penso: dunque, il mio hotel è a 250 km da qui, la persona che conosco più vicina a 3000, sono in mezzo al nulla a piedi e le commesse qua dentro si sono trovate un tipo random straniero di carnagione scura con la barba ed una storia diversamente credibile. Per il resto tutto bene.

I contrattempi finiscono con l'estinzione della pioggia, se si esclude una sudata cosmica per arrivare in centro prima possibile.
In periferia scorrono le villette con giardino squisitamente americane, i parcheggi e i liquor store. Non fossi stato un po' sovrappensiero per gli eventi sopra narrati avrei sicuramente ascoltato "Lonely Grill" dei Lonestar, roba semplice.
I sobborghi lasciano spazio alle vie più centrali. I bar carini aumentano sempre di più.

Chattanooga ha subito diverse trasformazioni negli ultimi 50 anni, passando dall'essere una delle città più sporche d'America ad una delle più verdi. E si vede. La Downtown possiede musei, un acquario, parchi e un ponte pedonale sul fiume Tennessee.
Ma se devo scegliere un luogo solo non ho dubbi: Bluff View Art District, che non è affatto un bluff al contrario dei taxi.
Piccolo quartiere di artisti sul fiume con un vago retrogusto britannico. Ospita un museo, una galleria d'arte, un giardino con sculture e molte caffetterie con parchetti e dehor, oltre alla vista sul fiume. Si trova anche un ufficio turistico che organizza gite a Rock City e non è molto carino prendermi in giro. Tempo di godermelo un po' e devo scappare, comunque soddisfatto.

Due consigli:
- a meno che non si tratti di problemi grossi ovviamente, in viaggio tirate sempre fuori i fiori dal letame. È stata una bella esperienza, da film, che già un'ora dopo raccontavo ridendo. E la deep America l'ho vista eccome.
- niente taxi a Chattanooga




domenica 15 luglio 2018


Che sia perché alla lunga è un po' tutta uguale, che sia perché non appartiene alle nostre tradizioni, che sia perché sentir cantare di come il Kentucky e l'Alabama siano i migliori posti al mondo è abbastanza irritante, sta di fatto che la musica country non ha mai realmente attecchito fuori dal Nord America come altri generi musicali ivi nati.

Ma il mito del santuario che Nashville costituisce per la country (e la musica in generale) è quasi commovente. Ci sono band ad ogni ora, ovunque. E per capire appieno il ruolo popolare e giocoso che ha qui la country vi consiglio "A Boy Named Sue" del grande Johnny Cash, a cui è stato dedicato un intero museo.

Comunque se vi trovate in questa zona del sud, sicuramente non avete bisogno di me per sapere che ci sono enormi musei dedicati alla musica e una via (Broadway) con insegne al neon dove ogni tanto ci si fa una birra tra un live e l'altro.
Sentite piuttosto qui: la riqualificazione di un quartiere piuttosto anonimo (nel migliore dei casi!) vicino al centro chiamato SoBro, South of Broadway, ha avuto il suo centro nevralgico nella costruzione di un mega polo polifunzionale con hotel e ristoranti piuttosto interessante architettonicamente.

L'hanno chiamato Music City Center. Niente da fare, l'unico momento in cui in Tennessee non ascoltano musica è nelle pause tra una canzone e l'altra. 


sabato 14 luglio 2018

"Every Little Kiss" di Bruce Hornsby. Non riesco a capacitarmi di quanto sia bella questa canzone. Musica on the road, ma potrebbe essere la colonna sonora di tutto.
Mi fa compagnia sull'autobus per Nashville, e per inerzia anche mentre vado a piedi in città.

Giusto, la città.
La mia camera d'albergo sarà pronta nel pomeriggio, perciò mi faccio un giro nonostante un caldo così non l'abbia mai avuto in vita mia.
Dove decido di andare dunque?
Nel mega museo dedicato alla musica country, che sarà sicuramente bombardato di aria condizionata e sta peraltro ospitando due mostre dedicate ad artisti che adoro? Macché, è vicino a casa, ci vado quando voglio (saggio ragionamento, se non fosse che chiude alle 17. Roba da andare lì, fare un'enorme pernacchia ed annegarli nella saliva).
Giro per le piazze piene d'asfalto, ovvio.

Passeggio con destinazione Germantown, quartiere a nord del centro con graziosissime villette e giardini. Se ci sono negozi e ristoranti sono ugualmente ospitati in villette con giardino. Mai limitarsi al centro, in una città nuova.
Tre cose da segnalare: la piazza principale di Nashville ed il centro in generale (escluso il quartiere dei divertimenti) hanno confermato ciò che pensavo da mò: carini, ma non li cambierei mai coi nostri centri storici. Tra il centro e Germantown si trova il Bicentennial Capitol Mall State Park, una gigantesca esplanade con vialetti ed alberi costruita per il bicentenario del Tennessee nel 1996. Vi si trovano fontane oggi assiediate da bambini che si rinfrescano ed un monumento ai caduti della Seconda Guerra Mondiale, dove è stata scattata questa fotografia. A Germantown ho mangiato in un curioso ristorante con un'idea che mi sarei aspettato più da un paese come il nostro, dove il mangiare è una sacralità sociale: ti piazzano in un tavolo assieme ad altri clienti, tutti si servono le pietanze dallo stesso piatto, passandosele. Sei obbligato a socializzare, bellissimo. Cucina rigorosamente Southern fatta in casa.

Il lato tradizionale dell'America, quello meno da Sex & The City, mi accoglie così.


venerdì 13 luglio 2018

A mezzanotte spaccata mi aspetta un bus che mi porterà nell'America profonda. Quella interna, centrale. Dove adorano Dio, la musica country, i barbecue sul prato ed altri cliché.

Anche perché la prima cosa che vedo arrivato a Nashville è forse l'ultima che mi aspettavo (facciamo penultima, dopo una cover band degli 883): un sito storico.
Una ricostruzione, scoprirò poi. 
Fort Nashborough è nientepopodimeno che il primo accampamento che costruirono i britannici una volta giunti qui nel 1779, che diventerà successivamente la città di Nashville.
Come nel caso di molti altri settlements, fu scelta una location lungo il riverside, e gli americani già mi hanno contagiato. Il fiume Cumberland, che ancora oggi lambisce la città, fu ideale per il loro avamposto di capanne, costruite coi tronchi per ripararsi dai nativi e dagli animali selvatici.

Su internet si possono trovare facilmente le vicende dell'accampamento decennio per decennio. Lo consiglio agli appassionati di storia, anche quella americana. No, non mi piace la banana (a proposito di cliché).